
Nel precedente articolo, If you build it, he will come, ci siamo chiesti se per caso la nostra società andasse avanti da un bel po’ senza una precisa visione e senza strategie per il futuro. Occorre definire correttamente chi e cosa siamo, chi e cosa rappresentiamo, come svolgiamo la nostra attività.
In sintesi: qual è il nostro tennistavolo.
Ci siamo poi congedati con l’invito a rivolgere a noi stessi, ai nostri partner, ai nostri collaboratori, sei domande. Proviamo a “leggere” cosa accade dentro e fuori la nostra associazione senza preconcetti.
Dobbiamo aver chiaro, per usare un termine preso in prestito, il core business della nostra associazione. Ovvero l’attività a cui non rinunceremmo mai, vuoi perché prevalente, vuoi perché è quella con cui siamo partiti, vuoi perché quella per cui, a nostro giudizio, vale la pena sbattersi (non dimentichiamo che siamo dilettanti: il primo fine è comunque il diletto). Sembra una questione banale, scontata, ma ricordiamoci che piuttosto spesso anche grandi aziende perdono di vista il proprio core business.
Questo aspetto può essere condizionato dalla crescita dell’associazione, da fattori esterni o da eventi improvvisi (esempio classico: una società di amatori si trova a gestire un giovane talento). Preoccupiamoci che i cambi di prospettiva operati nel tempo non vadano a intaccare il principale servizio che offriamo ai nostri soci, che è poi il motivo per cui siamo stati scelti, e comunque che le strade che prendiamo siano convincenti e condivise dallo zoccolo duro.
Ribadiamo: un’associazione sportiva è prima di tutto un’occasione, un luogo, per socializzare. Essa è costituita da due fondamentali e imprescindibili componenti:
- Un team, ovvero le persone che prestano attivamente il loro lavoro (gratuitamente o dietro corrispettivo). Sostanzialmente parliamo dei dirigenti che si sono dati un incarico, e questo è comune a tutte le società, di persone che collaborano in qualità di volontari in faccende varie, di atleti e tecnici a vario titolo professionisti.
- Una community che, oltre al team, comprende tutti i soci che, generalmente pagando una quota, usufruiscono delle attività e che contribuiscono alla crescita dell’associazione. Un segmento a sé, peraltro non sempre presente, è costituito dalla componente giovanile, che di norma ha obiettivi e pratiche diversi dal resto dei soci e si colloca, eventualmente, come parte del team.
Una società sportiva ha il dovere di gestire con la massima attenzione team building e community building.
Bisogna garantire a ciascun elemento del team la possibilità di coltivare le proprie aspirazioni, armonizzando i legittimi interessi di tutti coloro che in qualche misura lavorano nell’associazione. Una buona pratica consiste proprio nel far mettere per iscritto ambizioni e interessi di ciascun membro dello staff, dai dirigenti ai volontari, e di discuterli periodicamente. Siamo, torniamo a ripetere, dilettanti ed è più che ammissibile che ognuno coltivi i propri obiettivi o abbia interessi personali: l’importante è conoscerli e armonizzarli.
Community building, oltre ad essere la ragione sociale e il fine essenziale di ogni società sportiva, è invece il motore che alimenta tutte le nostre attività: in primis siamo una squadra, e una squadra funziona bene se tutti si sentono coinvolti. Ma c’è un altro vantaggio che un’associazione dovrebbe cogliere, tra l’altro molto più facilmente di quanto avviene in un’un’azienda, costretta a investire molto sia nel marketing interno (essere considerati best place to work) che in quello verso i clienti: la brand advocacy.
I brand advocates sono le persone molto soddisfatte, addirittura entusiaste, del servizio che offriamo, e sono una chiave sempre più ricercata per la promozione e lo sviluppo di un’azienda, specialmente in tempi di social network. Il loro ruolo è quello di un influencer, gratuito e senza particolare notorietà, e che molti casi non sa di essere un brand advocate. Questo, se il numero è sufficiente al bisogno, li rende una risorsa enorme, anche perché rispetto a testimonial e influencer risultano più credibili. Un esempio? Apple.
Dopo i nostri associati, la seconda risorsa disponibile è il territorio intorno a noi. Da qui arrivano principalmente le nuove leve, alcuni stakeholders e probabilmente le principali sponsorship. Naturalmente ognuno avrà la sua idea di territorio e della sua estensione. Come e quanto siamo percepiti? Cerchiamo di guardare lucidamente a questo dato: è lo specchio che riflette la nostra forma esteriore, fonte di informazioni utilissime per lo sviluppo della società. In questo parametro ci sono gli input determinanti per il nostro futuro. C’è la nostra equity, ovvero il capitale che abbiamo accumulato in termini di immagine, riconoscibilità, affidabilità, efficienza, ecc. E c’è molto delle azioni da valutare e intraprendere: cosa possiamo fare per avvicinare o incrementare i rapporti con scuole, istituzioni locali, centri di aggregazione, commercianti, altre realtà sportive (magari per dividere una sede finalmente libera da vincoli con presidi, bidelli, bandi?), eventi, occasioni di promozione. Qui si concentrano i nostri reali competitor, da qui deve partire il nostro marketing e, se il nostro gruppo non è strutturato per gestire al meglio gli strumenti della comunicazione, qui si devono concentrare la maggior parte delle azioni ad esso relative.
Le società di tennistavolo non sono nostri concorrenti. Se escludiamo qualche città, nella maggior parte dei casi le altre squadre possono contenderci qualche giocatore di campionato ma non possono fare concorrenza alla nostra attività. In Italia le società di tennistavolo sono in media separate da molti chilometri, fatte le dovute eccezioni.
Perché allora questa domanda? Perché può aiutarci a capire chi siamo, quali sono i contenuti che ci conviene comunicare, quali servizi offrire. In altre parole: qual è il nostro tennistavolo. Insieme alla precedente domanda (“come ci vedono”), il confronto con i nostri omologhi ci darà l’idea più precisa possibile della nostra equity, della strada intrapresa e di quella ancora da percorrere. E, soprattutto, di cosa proporre e propagandare: se siamo un circolo di amici dove l’istruttore è un padre di famiglia numero milleottocento-e-spicci d’Italia, evitiamo di creare e di crearci illusioni. Insegniamo a giocare a ping pong, divertiamoci e soprattutto facciamo divertire. Puntiamo sulla fascia, largamente maggioritaria, di persone che fanno sport per ottenere due/tre ore di svago alla settimana, sui bambini che hanno bisogno di muoversi ma non aspirano alla medaglia olimpica. Il calcio, il tennis, la pallavolo, lo sci e tutti gli sport di successo sono pieni di gente così. Piuttosto non trascuriamo l’aspetto sociale, l’elemento aggregazione, le cene sociali e le occasioni di community building. Se invece la nostra squadra ha una struttura professionale e un settore agonistico di eccellenza, utilizziamo il segmento amatoriale come risorsa economica e come forma di scouting per i più giovani, ma lasciamo pure un po’ in disparte (o comunque circoscritto a orari poco utilizzati) chi non mostra interesse per i diversi livelli di allenamento. I nostri risultati, se ben comunicati, non smetteranno di attrarre nuove leve. Noi siamo il Tempio, da noi si viene per imparare: diciamolo senza timori.
Naturalmente sta a voi trovare tutte le sfumature intermedie e tutte le variabili, ma rispondetevi con franchezza e senza pregiudizi.
Facciamo un altro passo: qual è il nostro capitale da spendere presso il territorio rispetto a chi si occupa in generale di sport? Mettiamo insieme tutte le considerazioni precedenti e entriamo in un’arena più grande: cosa, nel nostro insieme (la configurazione della nostra associazione più, non ci stanchiamo di ripeterlo, il nostro tennistavolo) possiamo offrire ai nostri concittadini, ai possibili partners, alle istituzioni locali, che altri non possiedono (e, ovvio, viceversa)? La query “società sportive” nella mappa di Google del nostro quartiere restituisce sei palestre di fitness (con, immaginiamo, annessi bodybuilding, crossfit e qualche arte marziale), due di atletica pesante, una polisportiva (calcio, pallavolo, basket, nuoto, tennis), una di boxe, una piscina, un tennis club, un paio di campi da calcetto e una società di ciclismo. Una visione certamente parziale (conosciamo nel quartiere anche una società di scherma e altre palestre che non figurano tra le hit), ma il dato è comunque interessante. Questo è il nostro bacino di utenza, da cui prendere e a cui cedere sportivi. Ultima osservazione: sentiamo spesso lamentele sulla difficoltà di fidelizzare i nostri soci, in particolare bambini, che di frequente ci lasciano dopo un periodo più o meno lungo. Certamente un elemento di riflessione, ma teniamo presente che l’abbandono, o il cambio di disciplina, è un fenomeno tipico di tutti gli sport. Dobbiamo abituarci al ricambio, e lavorare costantemente perché ciò avvenga anche in entrata, considerando che tra le varie opzioni non siamo certo i primi della classe. Non preoccupiamoci troppo se alla fine della stagione, o a gennaio (mese tipico dei ripensamenti), qualche bambino ci ha abbandonato: è normale. Preoccupiamoci di avere sempre un altro bambino pronto a sostituirlo.
Come abbiamo già notato, difficilmente i nostri concorrenti in zona sono altre squadre di tennistavolo. Tra l’altro sarà meglio distinguere l’attività giovanile dagli adulti: il quadro non è lo stesso. Cerchiamo di acquisire il più possibile e di gestire al meglio le informazioni che ci possono arrivare dai nuovi tesserati: saranno un contributo preziosissimo per le nostre prossime mosse. Inoltre, monitoriamo costantemente le attività sportive nella nostra area di influenza, con tutti i mezzi possibili: è indispensabile sapere come si muove la concorrenza, a partire dalla categoria che statisticamente risulta più numerosa: il fitness. Il mondo del fitness ci fornisce già alcune risposte. L’offerta coincide con quella che molte delle società di tennistavolo possono intercettare: tenersi in forma senza grandi ambizioni agonistiche. A ben vedere, se rispondiamo a queste esigenze, possiamo avere dei vantaggi competitivi, primo fra tutti l’aspetto “divertimento”. Il fitness ha bisogno di proporre continuamente novità per non annoiare la clientela, dal momento che una palestra di per sé non offre grandi possibilità di divertimento. La strategia comune al mondo del fitness è la ricerca continua di alternative, che spesso prendono in prestito alcuni aspetti di altre discipline: dal rowing (canottaggio) al gliding (pattinaggio), dallo H.E.A.T. (camminata sportiva, trekking) alle tecniche mutuate dalla danza e dai balli. Se le nostre società saranno in grado di rispondere al meglio alla domanda di benessere e forma fisica (quindi non sottovalutando l’aspetto atletico/ginnico da sottoporre agli iscritti) probabilmente le palestre di fitness saranno le nostre prime vittime. Più attenzione ad esercizi ginnici di gruppo (so-cia-liz-za-re), minor focus sulle competizioni.
Quando saremo sicuri delle nostre possibilità, pregi e difetti, e le avremo confrontate con quello che offre il mercato intorno a noi, potremo dirci pronti per avvalerci di azioni promozionali e più in generale del marketing. Il tennistavolo non è un prodotto tangibile, materiale, quindi starà a noi fornirgli un volto, un tono di voce, un carattere che possa fare breccia. Il marketing, per molte piccole imprese italiane, è passato dal mettere una maquette sulle Pagine Gialle all’idea di fare tredici al Totocalcio. Non funziona così: serve un piano. L’errore più frequente è fare senza pensare, o pensare di saper fare. Promuovere azioni scoordinate e senza una logica. Comunicazione e marketing possono essere degli asset vincenti per una società sportiva, ma come gli altri impegni dell’associazione richiede tempo, lavoro e risorse. Come possiamo pretendere che il mercato si interessi alla nostra attività, se noi stessi siamo i primi a dimenticarci di raccontare cosa siamo in grado di fare? Il prossimo articolo sarà dedicato a questi approfondimenti.